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Lina Mangiacapre e le Nemesiache

Donna dalle plurime identità, Lina Mangiacapre (Napoli 1946 - 2002) non ricade mai in una forma definita e limitante, ma resta un’artista, un corpo legato alla ricerca del mito e all’incarnazione dell’androginia. La sua identità è multiforme, sfaccettata, inafferrabile e mutevole. Attraversa diversi media comunicativi, partendo dalla ricerca sul pensiero filosofico per arrivare all’abbattimento del logos. Successivamente si dedica alla poesia e alla pittura, firmandosi come Malina, protagonista dell’omonimo romanzo di Ingeborg Bachmann, nonché dea del sole degli Inuit. Si dedica anche al teatro, al cinema, alla sceneggiatura, rimanendo costantemente una militante politica. In veste di Nemesi, ovvero la divinità astratta greca tutrice e conservatrice dell’ordine e dell’equilibrio dell’universo, dà vita al collettivo politico femminista le Nemesiache, attivo nella città di Napoli a partire dal 1970. Il collettivo si inserisce nella mappatura dei femminismi italiani, esprimendo le sue intenzioni con la stesura di un manifesto, in concomitanza con quanto era avvenuto a Roma con il movimento di Rivolta Femminile, nel quale figurano anche Carla Lonzi, Carla Accardi ed Elvira Banotti.


Nella sua vita l’ artista si dedicherà ad avere più vite e a fuggire da ogni definizione circoscritta. Nell’onda del ’68, con la carica energica e il traboccante desiderio di cambiare il mondo di quegli anni, Mangiacapre si avvicina alla filosofia ma non si limita a vivere la passione filosofica nelle aule dell’università. Sceglie di andare in strada, discutendo al porto con i pescatori, gli uomini che vivono la verità senza cercarla necessariamente tra le pagine dei manuali accademici, predisposti e desiderosi al confronto, anche se analfabeti o illetterati.

Come racconta Mangiacapre in un’intervista:

“Ho incontrato Sartre, la passione filosofica, mettere insieme marxismo ed esistenzialismo:… fuggire dall’Università, andare a Mergellina e fare filosofia con i pescatori e i camerieri dei bar che mi chiamavano Socrate”.

La voglia di liberazione che permea gli anni degli studi filosofici prosegue con l’attività politica e la militanza femminista, che non abbandonerà mai, e che anzi fa da innesco per l’attività artistica alla quale si dedicherà rimanendo “in movimento sui bordi delle arti”. La scelta dell’arte in quanto linguaggio capace di trasformare e plasmare il mondo, di parlare delle disuguaglianze di genere e portare ad una liberazione corale, la percorre individualmente come pittrice-poetessa e poi collettivamente con altre artiste, sorelle e amiche, sancendo patti per la vita che si manifesteranno negli atti performativi, tanto teatrali quanto cinematografici.


La passione per il pensiero, la ricerca di un pre-concetto, di un’origine corporea della filosofia che permetta di liberare il corpo femminile da assolutismi e dettami patriarcali, che ne hanno per secoli determinato limiti e norme di comportamento, la riporta al mito. Il mito è inteso da Lina Mangiacapre in quanto radice per la ri-costruzione dell’identità limitata e asfissiata da secoli di patriarcato, “per riprendere le proprie origini e attingere a una propria identità forte”. Sempre nelle parole dell’artista: “E’ chiaro che ci doveva essere un modo di comunicare precedente al concetto… ho pensato che questo precedente era il mito, cioè che il mito fosse questa forma dove c’era il corpo”.


Il corpo viene riportato al centro della ricerca artistica e reincarnando le donne della mitologia, Didone, Pentesilea, Ofelia, Faust-Fausta, in un processo di riappropriazione delle origini, di rintracciamento dei corpi liberi e di connessione con un passato reciso e nascosto. Il femminile riemerge da una silente forzatura, le donne riacquistano la voce, la mobilità, la sinuosità, la passione, le emozioni e anche la follia viene riabilitata, esce dall’oscurantismo nel quale il raziocinio l’ha scaraventata e rinchiusa, resa pericolosa e quindi da sopprimere, da delegittimare e da nascondere dietro mura di reclusione. Tutto ciò avviene attraverso il teatro, come forma artistica-terapeutica, la psico-favola, che è pratica artistica dell’autocoscienza, che riporta alla luce il rimosso storico e “fa emergere dal presente il passato, rivendica la realtà amputata e pone la dimensione cosmica come proposta di un altro universo di valori”, e anche il cinema. Si riallacciano così i rapporti con il femminile recisi dal patriarcato con la dominazione maschile della cultura e della creazione artistica. Si costruisce un ponte con la cosmogonia femminile, con un altro ordine del mondo, legato all’armonia, all’equilibrio e alla vita.


Il collettivo le Nemesiache, radicato e nutrito del (e nel) contesto napoletano, concretizza la ricerca della liberazione dei corpi e la ritrovata armonia con l’irrazionale nell’esperienza vissuta grazie alle ricoverate e alle operatrici dell’ex ospedale psichiatrico il Frullone, coinvolte in un processo artistico che si trasformerà in azione performativa, avvenuta tra il 1977 e il 1979, e sarà ripreso su pellicola con il titolo “follia come poesia - riprendiamoci il corpo mare”.


Come si legge dal documento dattiloscritto che testimonia l’esperienza:

“PRIGIONIERE POLITICHE…DELLA NOSTRA FOLLIA NON PIU’ COME MALATTIA MA RIVOLTA

(giorni 1 e 2 Aprile 1978 Frullone)

Quando hanno finito di bruciare le streghe hanno aperto i manicomi.

Quando finirà la guerra dei sessi bruceremo i manicomi.

Ogni nostra espressione è ridotta a follia, a malattia o devianza.

Ogni nostra rivolta è imprigionata, confinata, bruciata sui roghi di tutte le culture e le ideologie”.


L'artista Lina Mangiacapre e le Nemesiatiche durante una delle rappresentazioni di Follia come poesia

Le Nemesiache ristabiliscono la connessione con il margine, con chi nella società viene marginalizzato e ghettizzato per divergenze di natura rispetto al modello di corpo unico normato e corretto. In un’azione corale danno vita a un baccanale a base di strumenti e libera sperimentazione di rumori, fatta di gioco e di emissione di suoni, utilizzando flauti e tamburi. Il momento culminante sarà il concerto nella cappella dell’ospedale Psichiatrico Frullone di Napoli nel 1987, dove Lina Mangiacapre suona il pianoforte, mentre attorno Nemesiache e ricoverate comunicano, danzano, si esprimono nei modi che senza controllo di condotta affiorano. Il corpo riacquista movimento, attraverso l’espressione spontanea, fuoriuscente, disinibita dagli schemi sociali, attraverso la danza si dà vita all’incontro e al riconoscimento con l’alterità. Si crea un corteo spontaneo che appiana e livella ogni differenza. Tutte stanno insieme e come ninfe in stato di delirio danzano e cantano, e ancora suonano e animano lo spazio usualmente ambiente di contenimento e simbolo della reclusione, conferendogli una nuova vita. Perché le donne del Frullone sono psichiatrizzate, definite come folli, sono donne negate, tanto individualmente tanto nell’intero corpo sociale. Ma i loro corpi continuano a esistere, a respirare, a rispondere agli stimoli e alle giocosità proposte dalle Nemesiache, che oltre a suonare insieme andranno a fare il bagno alla Gajola, riprendendo quel corpo mare racchiuso, limitato e confinato nello spazio e rendendolo finalmente di nuovo libero di scorrere e fluire, senza margini e paratie sanitarie. Il mare nel suo continuo e imperterrito moto dona orizzonte libertario, dona onde mutevoli e mai fisse, dona simbolicamente la costante trasmutazione delle forme.


L’autorità reprime e rinchiude, mentre l’azione delle Nemesiache si prefigge di liberare, perché come la voce di Mangiacapre dice nel video: “La follia non deve essere istituzionalizzata ma vissuta, ed è solo vivendola che si può non farla diventare malattia”. Infatti chi si libera dei propri demoni è in ultima istanza l’artista stessa, che dopo un iniziale momento di smarrimento e distanza dati dall’aspetto delle ricoverate, trasandato e sciupato, si riconosce nello sguardo e nei gesti dolci e capaci di trasmettere amore delle “folli”. Svelata la patina di diffidenza e di pregiudizio, Mangiacapre apre gli occhi e le guarda veramente, le osserva nella magnifica magia che sanno esprimere nei loro aspetti e gesti diversi e riconosce che i mostri non sono le internate ma ciò che si annidava nella sua interiorità.

Sono le ricoverate a permettere all’ artista e alle Nemesiache di sbloccare timori e preconcetti e, dunque, a permettere una crescita, uno scioglimento, ancora una volta una liberazione che passa dai canali dell’amore e dell’accoglienza dell’alterità. Sono le ricoverate ad accettarle, seppur così diverse da loro.



Bibliografia


Campese Silvana, La nemesi di Medea: una storia femminista lunga mezzo secolo, Associazione Culturale l’Inedito, 2019


Cipollone Gaia, Nemesi performativa. Scritture, corpi e immagini nella ricerca di Lina Mangiacapre e delle Nemesiache, Scritture della performance 10, n.2, 2021


Manifesto delle Nemesiache, 1970

Nappo Nadia, Intervista a Lina Mangiacapre, “Napoli frontale”, 1998


Pizzuti Nadia, Lina Mangiacapre, artista del femminismo, 2015


Prigioniere politiche…della nostra follia non più come malattia ma come rivolta, documento dattiloscritto, Le Nemesiache, 1978



http://www.bnnonline.it/lenemesiache/cinema_film_follia_come_poesia.php.html


Follia come poesia, Lina Mangiacapre https://www.youtube.com/watch?v=J5UcYpxei0Y&t=2s



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