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La (S)fortuna dell’impressionismo


Nel 1874 inaugura una delle mostre temporanee più importanti della storia dell’arte contemporanea: è la mostra degli impressionisti. Quello che si scopre al liceo su questo gruppo di ribelli della pittura francese è sicuramente vero: la loro decisione di esporre nello studio del fotografo Nadar fa da spartiacque tra il mondo del museo, dell’accademia e quello dell’arte nuova e delle gallerie.


È proprio il 1874 quando in rue des Capucines viene esposto Impression: soleil levant, di Monet. Come ci hanno insegnato, il nome della corrente impressionista viene proprio dalla critica a questo quadro. Il giornalista Louis Leroy rende celebre il quadro scrivendo, a mo’ di satira, la seguente recensione che resterà alla storia (dell’arte):



[...] Il suo viso diventò paonazzo [...] "Che rappresenta questo quadro? Come dice il catalogo? Impression: soleil levant. L'avrei giurato! Dicevo giusto a me stesso che ci doveva essere qualche impressione che mi aveva colpito [...]. E che libertà; che bravura! Una carta da parati al suo stato embrionale è più rifinita di questa marina. 
Louis Leroy, in “Le Chiarivari”, aprile 1874 

Monet stesso dichiara di non poterlo intitolare "Veduta di Le Havre", e così disse all'Anonima società cooperativa degli artisti: "Scrivete impressione"".


Il gioco di parole del giornalista fa riferimento sia al fatto che il pubblico rimaneva impressionato da queste tele, e sia dal fatto che questo innovativo metodo di pennellare ricordasse la prima impressione di vernice su un muro da imbiancare.


Claude Monet, Impression: soleil levant, 1872, 48 x 63 cm, olio su tela, Musée Marmottan Monet, Parigi


Da un lato, la critica si concentrò sulla tecnica. Per esempio, le ombre degli impressionisti non rispettavano i colori definiti dall’accademismo. In miriadi, sui giornali, si occuparono di criticare un’ombra lilla al posto di una grigia.


D’altro canto, erano i soggetti a far parlare, e ridere, il pubblico. Nudi, paesaggi, scene realiste, non solo erano satirizzate, ma erano anche giudicate come incomprensibili a causa dello stile nuovo e confusionario dei quadri impressionisti.


All’inizio, l’impressionismo piaceva ai critici progressisti, ed era incompreso dal pubblico.


Doveva essersi diffusa rapidamente la voce che c’era da vedere un quadro buffo, perché la gente correva disordinatamente per tutte le sale e gruppi di turisti, temendo di perdersi qualcosa d’importante, spingevano e gridavano – “Cosa?”, “Di là!”, “. È incredibile!” - . Le battute di spirito si sprecavano ed erano tutte riferite al soggetto del quadro. Nessuno lo capiva; tutti lo consideravano pazzesco, incredibilmente comico.  

Emile Zola, L’Œvure, 1886  

Il gruppo composto da Monet, Renoir, Pissarro e compari non rimase per niente stupito del tipo di critica alla quale fu sottoposto. L’Ottocento è il secolo che vede nascere il critico come professione, e che apre ai giornali pubblici il discorso sull’arte. A partire dalla satira politica che nei periodi della rivoluzione del 1848 era diventata un vero caso estetico e sociale, quello che appariva sui giornali prendeva sempre più importanza, vedendo nascere l’opinione pubblica. Il sistema dell’arte della nuova costruzione borghese non apparteneva più soltanto al mondo ecclesiastico o al potere aristocratico. Il nuovo borghese non solo poteva vedere la nuova arte contemporanea, ma anche giudicarla, rimanerne affascinato attraverso i giornali, e anche comprarla.


Prima degli impressionisti, pittori contestatari come Delacroix, Géricault e Courbet avevano spianato la strada alla critica oppositiva. Erano ormai cinquant’anni che in Francia era chiara l’equazione


bad review = good review


Non ci volle molto per comprendere che avere il proprio nome sulla pagina del Chiarivari fosse più utile di non essere citati. Gli artisti iniziarono così a giocare sul gusto contraddittorio e politicizzato di galleristi e collezionisti. Lentamente la corrente iniziò ad influenzare tutta la vita estetica e culturale europea, per poi valicarne i confini. L’uso del colore nell’impressionismo finì per influire anche sulla moda e il design, con fenomeni come quello della violettomania, nata dal colore delle ninfee di Monet. La sua influenza arriverà fino al cinema d’animazione giapponese di Miyazaki, diventando la reference per l’estetica del film Si alza il vento:



Claude Monet, Donna con il parasole, madame Monet con il figlio (1875); olio su tela, 100×81 cm, Washington D.C., National Gallery of Art


Ma per una fetta degli amanti della pittura, l’impressionismo resta inguardabile. Un esempio ancora attuale è la pittura di Renoir, da sempre criticata come scomposta e poco armoniosa. Nel 1876, Albert Wolff ne parla così nel Figaro:

Cercate di spiegare al signor Renoir che il busto di una donna non è un pezzo di carne in decomposizione, con macchie verdi-violacee, che denotano lo stato di completa putrefazione di un cadavere! E questo ammasso di oscenità viene liberamente esposto al pubblico, senza considerazione per le fatali conseguenze che potrebbe avere. 

Per tutto il Novecento, impressionismo e post-impressionismo ottengono un successo ineguagliato da nessun’altra corrente. Le prime grandi mostre blockbuster nascono proprio dall’esposizione degli artisti francesi della seconda metà del Novecento.


Ma la resistenza di alcuni critici non viene affossata.


Nel 2015 nasce negli Stati Uniti, ma soprattutto su Twitter, un movimento critico proprio nei confronti di Renoir: #RenoirSucksAtPainting. Pittore che, ricordiamo, passò molti anni della sua carriera a dipingere con i pennelli legati alle mani per via di una gravissima artrite. Insomma, potremmo anche scusarlo. Eppure, nasce questa nuova ondata di anti-impressionismo, condita da umorismo proprio come era stato alle origini. Il movimento chiedeva esplicitamente di rimuovere le opere di Renoir dalle collezioni museali americane, perché la loro qualità è inadeguata e non rispetta il gusto del pubblico, in quanto detentore del patrimonio pubblico.


Ma la realtà è diversa. Infatti, questa ondata di contrarietà non ha avuto nessuna influenza sul sistema delle mostre internazionali, sempre affascinate dal periodo impressionista francese. Anzi. Il numero di mostre sul tema è incalcolabile, o almeno ci vorrebbe una ricerca dottorale per scoprirle tutte. In Italia, Torino ha collaborato per anni con il Musée d’Orsay per mostre sugli artisti di rue des Capucines. Solo tra il 2013 e il 2016 si calcolano all’incirca una settantina di mostre su e con Monet e altri impressionisti. Quest’anno abbiamo En route to impressionism all’Hiroshima Museum of Art, in Giappone, ma anche Renoir, Monet, Gauguin: Images Of A Floating World al Museum Folkwang di Essen, in Germania. In Texas, al Museum of Fine Arts di Houston, si è da poco conclusa Incomparable Impressionism From The Museum Of Fine Arts ma nel 2020 c’è anche stata Renoir: the Body, The Senses. Centinaia. Ma abbiamo anche Renoir in Germania, From Renoir to Kostabo in North Dakota, Jewels of Impressionism and Modern Art in California. Incalcolabili. Servirebbero mesi di ricerca, forse anni.


A livello di storia critica sugli impressionisti (e le impressioniste) è stato detto quasi tutto, e resterà solo da studiare la mania per l’impressionismo.


Quello che è cambiato è che oggi i critici progressisti non sopportano gli impressionisti, mentre il pubblico li adora.



Bibliografia


Federica Rovati, L'arte dell'Ottocento, Einaudi, 2017, Torino

Martin Kemp, L'arte nella storia, Bollati Boringhieri, 2015, Torino

Elena Capretti, Impressionismo, Atlanti Universali Giunti, 1996, Giunti, Firenze

Riccardo Falcinelli, Cromorama, Einaudi, 2017, Torino


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