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La rappresentazione della donna e dell’esotico: il caso di Paul Gauguin

Aggiornamento: 3 ott 2020



Nel 1972 la storica dell’arte Linda Nochlin scrive Eroticism and Female Imagery in Nineteenth-Century Art, trattando il tema della rappresentazione erotica del corpo nudo nell’Ottocento. L’arte erotica fu per molto tempo arte per uomini, che venissero rappresentati ragazzi o donne. La sessualizzazione del corpo era determinata dall’osservatore, sia etero che omosessuale, ma pur sempre uomo: una modalità che è stata chiamata dalla teorica cinematografica Laura Mulvey “male gaze”. L’arte erotica si dedicava ai desideri dell’uomo, anche quando si trattava di rappresentare una relazione lesbica, come nel caso de Il sonno di Courbet (1866), che fu commissionato da un ambasciatore turco per la sua collezione privata.


Il dipinto di Paul Gauguin I seni coi fiori rossi, dipinto nel 1899, è uno degli esempi che utilizza Nochlin nel suo saggio. Il quadro è oggi conservato al Metropolitan Museum di New York, con il titolo Two Tahitian Women, com’è citato dall’autrice. Nel titolo in italiano e francese (Les seins aux fleurs rouges) sono richiamati esplicitamente i seni delle due donne, mettendo in evidenza la simbologia usata da Gauguin che paragonava, come da tradizione, il seno di una donna a dei frutti. Gauguin con questo dipinto evoca una carica erotica avvalorata dagli sguardi delle due modelle verso lo spettatore. Linda Nochlin fa notare al lettore quanto la simbologia del frutto fosse dedicata esclusivamente agli attributi femminili: la banana, simbolo fallico per eccellenza, non era mai rappresentata vicino a un nudo maschile, né tantomeno le erano dedicate canzoni o poesie.




Non è un caso se Nochlin utilizzò l’esempio di Gauguin per il suo saggio sull’arte erotica ottocentesca. La ricercatrice statunitense nei suoi studi analizzò da un punto di vista strettamente storico-artistico due tematiche oggi molto attuali: da un lato, come abbiamo visto, l’oggettificazione del corpo femminile, e dall’altro il rapporto tra cultura occidentale dominante e cultura subordinata delle colonie. Paul Gauguin, dopo il periodo francese, viaggiò per la Polinesia, Tahiti e la Martinica. Nella retorica tradizionale della storia dell’arte europea, il suo lavoro è stimato perché incarna gli stessi valori proposti sul finire dell’Ottocento: disprezzo per la società detta ‘’civilizzata’’, per la città e il capitalismo, che si riverbera sul desiderio di fuga verso posti “paradisiaci” e non intaccati dallo stress della società post-industriale. La stessa retorica alla quale ancora oggi le persone occidentali si appoggiano per giustificare le loro vacanze turistiche di lusso in paesi poveri e con gravi situazioni sociopolitiche. Con la differenza che Gauguin non fosse sensibilizzato in ottica postcoloniale.


Il dibattito che negli ultimi anni si è fatto sempre più forte sull’eticità del comportamento di Gauguin nasceva negli anni Settanta, proprio quando la storia dell’arte muoveva i primi passi nella teoria postcoloniale e nella critica femminista. L’erotismo che insinua i ritratti del pittore aveva un’origine prevaricatrice, come si può dimostrare leggendo i suoi stessi diari, dove scriveva di provare il desiderio di abusare delle donne del posto. Ricordiamo che a Tahiti Gauguin si sposò con una ragazza di 13 anni e una di 14, infettandole con la sifilide che aveva contratto in Europa. Ciononostante, la visione romantica della carriera di Gauguin è stata perpetuata ancora e ancora dalle innumerevoli mostre, film e letteratura a lui dedicate. Un esempio lampante è la citazione dello storico dell’arte René Huyghe (1906 – 1997) che rassicurò i propri lettori che i tredici anni delle ragazze tahitiane equivalessero ai 18 di quelle europee. È interessante notare come l’artista sia stato giustificato e legittimato più dai suoi successori che dai suoi contemporanei. Il suo stesso maestro, Camille Pissarro, affermò: «Gauguin fa sempre del bracconaggio nella terra di qualcun altro; al giorno d’oggi sta saccheggiando i selvaggi dell’Oceania.».


La ricerca storico-artistica su Gauguin ha studiato per lo più il suo stile, i suoi colori e le sue scelte compositive, analizzando poco i suoi soggetti. Studiando il modo in cui dipinse la natura e gli esseri umani di Tahiti, si può notare però la sua idealizzazione di stampo occidentale su quello che era definito esotico. I riferimenti biologici e culturali dei suoi quadri sono inaccurati, e danno la priorità al suo sguardo, alle sue proiezioni, a ciò che aveva desiderato di quel posto, nel ruolo dell’uomo bianco colonialista dell’epoca. La sua arte influenzò la corrente del Primitivismo, di cui si fece testimone Pablo Picasso, che negò fino alla morte di essere stato influenzato dalle maschere africane per le sue Demoiselles d’Avignon (1917).


I soggetti di Gauguin, e il primitivismo in seguito, diedero agli artisti europei la possibilità di giustificare nuove composizioni estetiche per andare contro lo stile accademico. Eppure, nel quadro Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? (1897) si nota l’influenza occidentale di una descrizione che non ha nulla di naturalistico: Gauguin non si ispirò all’arte del posto, ma piuttosto alle composizioni di Puvis de Chavannes. Allo stesso modo, in Manao Tupapau (1892), si nota l’influenza di Ingres e di Manet, e di altri nudi occidentali. Inoltre, Gauguin evocò in questo e altri dipinti una religiosità cristiana che era stata imposta dall’impero francese sulle sue colonie con forza e brutalità. La volontà di Gauguin non era di parlare al pubblico occidentale di una cultura diversa, ma, come per molti artisti, poter realizzare delle opere di proprio gusto e vendibili sul mercato dell’arte. I quadri di soggetto esotico, sul finire del XIX secolo, vendevano infatti molto di più: lo ammise Gauguin stesso nei suoi scritti, ricordando che per avere fama si doveva viaggiare e rappresentare “l’altro”, quello che veniva chiamato all’epoca il “selvaggio”. Il pittore di fatto non vendette alcuna opera importante prima del 1888, anno del primo viaggio in Martinica.


Nel 2019, la scrittrice Farah Nayeri ha pubblicato sul New York Times l’articolo dal titolo provocatorio Is it Time Gauguin Got Cancelled? che ha riaperto aspramente il dibattito. L’articolo è stato preso di mira soprattutto perché non è stato analizzato accuratamente. L’autrice non propone davvero di cancellare le opere di Gauguin, né tantomeno toglierle dai musei. Reclama invece l’importanza di uscire dalla retorica romantica e colonialista della descrizione delle sue opere, portando l’esempio della recente mostra «Gauguin Portraits», dalla National Gallery di Londra, che per la sua versione canadese ha visto delle modifiche alle didascalie, che dovrebbero essere ormai la norma: di fianco a un’opera dal titolo Testa di selvaggio, Maschera la didascalia specifica che il termine selvaggio è considerato offensivo al giorno d’oggi, ma all’epoca rifletteva il senso comune degli occidentali come Gauguin.


Certo, si può discernere l’uomo dall’artista, ma non si può far finta di niente. In un resoconto storico-artistico contemporaneo è importante prendere in considerazione il bagaglio culturale di un personaggio storico uscendo da un’ottica eurocentrica e patriarcale, per ammettere le condizioni di sottomissione imposte da una mentalità che era, a tutti gli effetti, imperialista e sessista. E lo resta se viene introiettata dalle discussioni intellettuali degli ex paesi colonialisti. La realtà che aveva vissuto nell’Europa di fine Ottocento lo aveva portato naturalmente a prevaricare la cultura altrui per la propria arte. La coscienza politica di Gauguin non gli permise di essere consapevole del danno che stesse procurando all’immagine e all’arte polinesiana. Eppure, la coscienza di studiose e studiosi del XXI secolo deve essere aperta a notare le contraddizioni di ogni periodo o personaggio storico, senza dimenticare le descrizioni essenziali per comprendere un periodo o uno stile. Non si può quindi parlare di Paul Gauguin senza parlare di colonialismo, razzismo e cultura del possesso.

Bibliografia


Linda Nochlin, «Eroticism and Female Imagery in Nineteenth-Century Art (1971)», Women, art, and power and other essays, 2018, Routledge, New York, p. 136


Emma Pilker, Guys Like Gauguin : A Legacy of Colonialism, in «Perceptions», Vol. 4, autunno 2017, Temple University, Philadelphia https://issuu.com/tuhssa/docs/perceptions_4.1__full_


Jean-François Staszak, Primitivism and the Other. History of Art and Cultural Geography, in « GeoJournal », 2004, 60, 4, pp. 353 – 364



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