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Fili che creano legami: l'arte relazionale di Maria Lai

“Il paese è metafora del mondo”


Così Maria Lai descrive il suo paese, Ulassai, ai piedi dell’imponente monte Tisiddu nell’Ogliastra sarda, dove nasce nel 1919.

Ulassai è il paese ostile, resistente al cambiamento, che indugia nella sua forma e diffida del movimento, invita a mettere le radici e tende a chiudere in sé stesso chi lo abita. Invita ad allontanarsi per trovarsi e conoscersi. Così Maria si allontana, iniziando a tessere la sua vita con un filo che prenderà molte forme. Lascia la Sardegna nel 1939 in cerca della città, prima a Roma e poi a Venezia dove, unica donna, frequenta il corso di scultura tenuto da Arturo Martini all’Accademia di Belle Arti. “Qui si fa sul serio, cosa ci fa qui la pupa?” sente ripetere Martini, in un momento storico in cui il più grande complimento che le rivolgono è quello di avere un tratto del disegno “quasi maschile”. Negli stessi anni, in un’altra Accademia, quella di Brera, sulla porta del corso di Carlo Carrà un cartello dissuadeva le donne dall’avvicinarsi alla pratica artistica recitando testuali parole: “le donne non sono adatte all’arte perché non sanno sopportare le privazioni e i sacrifici che l’arte richiede, per esempio la fame”. Per Maria, invece, l’arte è donna. La figura dell’artista per lei è rappresentata da Maria Pietra, la maga e madre del racconto Cuore Mio di Salvatore Cambosu. Scrittore sardo e maestro di Maria Lai alle scuole medie di Cagliari, sarà lui a insegnarle l’amore per il ritmo e la poesia che la accompagneranno lungo tutta la sua ricerca artistica.

Nel 1945 torna in Sardegna e insegna disegno alle scuole elementari di Cagliari. Ma l’isola stringe ancora e la invita ad allontanarsi nuovamente. Sarà ancora Roma ad accoglierla, con la sua prima mostra personale alla Galleria Obelisco, nel 1957. Dopo un periodo lontana dalla scena artistica pubblica, ma vicina alla poesia e al fermento artistico della città, Maria ne torna a far parte, rafforzando quella ricerca per i materiali del quotidiano che è caratteristica di tutta l’Arte Povera. All’inizio degli anni Settanta, Maria Lai realizza le prime Tele Cucite, in cui l’ago e il filo sostituiscono il pennello e i colori, trattando la tela non come supporto, ma come materia prima delle proprie composizioni, lavorando su di essa come hanno fatto, ognuno a suo modo, Alberto Burri, Lucio Fontana e Piero Manzoni. Quel gesto del cucire la tela è un’eredità della sua terra, in cui per anni ha osservato le donne ricamare le lenzuola della casa, immaginandosi che fosse un modo per raccontare le favole. A partire da questi anni, nella sua arte sarà presente un filo che lega, collega, cuce insieme, per creare relazioni intenzionali tra i materiali, i luoghi e le persone.

Il dialogo con la tradizione sarda continua nella seconda metà degli anni Settanta, quando realizza le sue sculture di pane, richiamando il pane pintau, il pane delle feste, intagliato e decorato fino a diventare una vera e propria opera d’arte.

Maria Lai fa del sapere tradizionale della sua isola, arte. Riscopre l’importanza dei miti e leggende che da secoli raccontano la storia della Sardegna e dei suoi abitanti, diventando un linguaggio comprensibile agli occhi di tutti. I panni, i pani, i telai, l’ago e il filo, sono gli stessi che le mani sarde hanno usato con sapienza nei mestieri tradizionali per secoli.

Con i suoi fili, Maria Lai cuce la memoria dell’artigianato popolare e dei mestieri della sua terra con la ricerca artistica contemporanea, in un continuo legame tra il passato vivo, e il presente.

I suoi fili tessono storie, forme, paesaggi nei Telai, strumenti di lavoro delle donne, insieme oggetto funzionale e artistico, ma anche strumento dell’attesa e dell’inganno del tempo, privato della sua utilità perché scomposto e trasformato.

Fili che negli anni Settanta riempiono le pagine dei Libri Cuciti, in cui sostituisce il discorso razionale con una scrittura intima, indecifrabile, evocativa.

L’artista passa dall’esplorazione tattile e personale dei Libri Cuciti a quella visiva, espandendosi dal piccolo all’infinito nelle Geografie, mappe astrali immaginarie cucite su stoffa.

E ancora, scrittura che si apre invece alla lettura, diventando pubblica e spaziale in Legarsi alla Montagna (1981).

È negli anni Sessanta e Settanta che artisti e artiste si emancipano dal museo e dalle gallerie per aprirsi all’esterno, alla ricerca di un confronto diretto con il mondo reale e di coinvolgimento di un pubblico sempre più ampio. Le opere assumono un carattere effimero e si manifestano formalmente come performance, azioni, animazioni, installazioni e sculture. L’arte si apre alla dimensione pubblica e all’estetica del quotidiano, con la realizzazione di opere site-specific, azioni effimere, temporalmente definite nella durata della performance. Ma Legarsi alla Montagna prende le distanze dalle azioni artistiche partecipate degli anni Settanta, perché profondamente radicata al suo territorio. Quando il sindaco di Ulassai le commissiona un monumento per ricordare i caduti, Maria Lai si rifiuta: «realizzerò un’opera per i vivi». Decide inoltre che i finanziamenti del comune non serviranno, e l’autrice non sarà lei, ma il paese. Legarsi alla montagna è comunemente considerata la prima opera italiana di arte relazionale, corrente teorizzata quasi due decenni più tardi nel saggio del 1998 Esthetique Relationelle di Nicolas Bourriaud, in cui sostiene che l’arte sia “uno stato di incontro”.




Il nastro celeste di Legarsi alla montagna è quello della leggenda che tutto il paese di Ulassai conosce: racconta di una bambina salita sulla montagna a portare il pane ai pastori e che, per ripararsi dal temporale in arrivo, si rifugia con loro in una grotta. Insieme ai sassi e le pietre che cadono, il vento fa danzare in cielo un nastro celeste. La bambina, attratta dal nastro, lo segue incurante della tempesta, salvandosi dalla frana che in quel momento provoca il crollo della grotta e la morte dei pastori. Per l’artista, il nastro celeste rappresenta la valenza salvifica dell’arte, la capacità di creare stupore. Ulassai è in subbuglio, ma senza la collaborazione del paese l’opera non può realizzarsi. Maria Lai, che conosce la sua terra e i suoi abitanti, si occupa di parlare loro con vere e proprie assemblee cittadine e incontri con i singoli, in cui prova ad addolcire la rigidezza del paese, che inizialmente si rifiuta, e poi accetta. Ma sarà lui a dettare le regole. Certo è che non si possono cancellare discordie tra vicini con radici profonde e lontane nel tempo: si legheranno quindi, ma con la libertà di decidere la propria modalità e prendendosi la responsabilità di rendere pubblico il proprio legame. Viene stabilito dagli uomini e donne Ulassesi che nelle case in cui c’è discordia il filo passerà, ma teso, come tesi sono i rapporti. Dove c’è conoscenza ci sarà un nodo, l’amicizia profonda sarà visibile con un fiocco, e nelle case in cui c’è amore ci sarà legato al nastro un pane delle feste.

Così, l’8 settembre 1981, con i 26 km di nastro di jeans celeste donato dall’unico commerciante di stoffe di Ulassai, il paese si lega, e lega a sé la montagna in un’azione che durerà un’ora e che sarà portata a termine il giorno dopo, quando tre alpinisti si arrampicheranno sul monte con lo stesso nastro. Gli Ulassesi si legano tra loro e si legano alla loro natura, chiedendo pace alla montagna che minaccia di frane, e dando forma a quell’ansia di infinito che caratterizza tutta la ricerca artistica di Maria Lai. Il nastro celeste da elemento della leggenda diventa strumento politico, indagando spazialmente le relazioni sociali tra il paese e i suoi abitanti. Dopo l’operazione di Legarsi alla Montagna, Maria Lai continuerà ad avvicinare l’arte alle persone con altri eventi di arte relazionale, arte pubblica, giochi collettivi, coinvolgendo adulti e bambini in opere corali e continuando a creare dialoghi che la porteranno fino a Kassel e alla Biennale di Venezia. Controcorrente rispetto all’individualismo radicato e divisore della nostra società, per Maria Lai l’arte va in un’altra direzione: crea legami.

Bibliografia


Alessandra Pioselli, L’arte nello spazio urbano. L’esperienza italiana dal 1968 a oggi, Johan & Levi editore, 2015

Elena Pontiggia, Maria Lai. Arte e Relazione, Ilisso, 2017, pp. 177-192

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