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Donna di palazzo o più semplicemente abilissima figura politica? Isabella d'Este ed il suo studiolo

Aggiornamento: 10 mag 2022

È una storia di date, di scambi epistolari, di protagonismo e di sottile diplomazia femminile quella che racconta la decorazione dello studiolo di Isabella d’Este. Figlia maggiore di Ercole I d’Este e di Eleonora d’Aragona, Isabella nasce il 29 marzo del 1474. Promessa sposa dall’età di sei anni al quindicenne Francesco Gonzaga, fu chiesta in sposa anche da Ludovico Sforza, a cui andò invece in sposa la sorella Beatrice. Intelligente, colta e dotata di eccezionale memoria, Isabella è educata ai classici da Battista Guarino, già celebre professore dell’Università di Ferrara. Ma è anche appassionata di musica e di teatro, come il padre che è un famoso musicofilo, ed abile poetessa, che compone e mette in musica versi e sonetti. Nel febbraio 1490 lascia Ferrara ed accompagnata dal corteo nuziale, arriva a Mantova dopo tre giorni di navigazione fluviale, come voleva la tradizione della corte estense. Si installa alla corte dei Gonzaga, e da qui inizia la sua ascesa come socialité. Icona di moda e di stile, oltre a diventare una delle persone più influenti del suo tempo è anche l’unica donna mecenate nel panorama italiano dell’epoca. “La prima delle donne”, la definiva Niccolò da Correggio. “Liberale e magnanima” era invece per Ludovico Ariosto, al quale era legata da una fitta corrispondenza epistolare dove il poeta, già nel 1507 le illustrava i contenuti del suo “Orlando Furioso” che le consegnò personalmente nel 1516, anno della prima edizione. Primadonna di corte rispettata e ammirata era tuttavia invidiata e nemica delle altre dame del gossip cortese, come Lucrezia Borgia, moglie del fratello Alfonso e presunta amante del marito Francesco, con cui instaura una grande competizione a suon di abiti, acconciature e merletti.


Al centro del suo mecenatismo artistico c’è proprio il lungo e travagliato progetto per la decorazione del suo personale studiolo. Una storia che inizia verso il 1495 quando Isabella ne concepisce l’idea probabilmente ispirata sia dal meraviglioso Studiolo di Belfiore voluto da suo zio Leonello d'Este per la Delizia di Belfiore, residenza degli estensi fuori Ferrara oggi scomparsa, sia da quelli dei Palazzi Ducali di Urbino e di Gubbio, che ha visitato dopo averne sentito le descrizioni da sua cognata Elisabetta Gonzaga, sposata Montefeltro e sua intima e forse unica amica. Lo studiolo di Isabella era una piccola stanza all’interno dei suoi appartamenti, nella contro torre del castello medievale di San Giorgio, che doveva ospitare la sua personale collezione d’arte, ricca di antichità e di pezzi contemporanei, messi a confronto secondo il gusto dell’epoca. Ma il grande desiderio della “Prima delle donne”, per la decorazione di quell’ambiente, era quello di avere rappresentati e magari in competizione fra di loro, i migliori pittori dell’Italia del tempo. Vi doveva trovare posto un ciclo di dipinti ispirati alla filosofia platonica: allegorie che rappresentassero il trionfo della virtù sulle passioni, dell’armonia e la vittoria dell’amore casto su quello carnale. Tutte chiaramente celebrazioni della personalità e della fine intelligenza della stessa Isabella e della sua unione con Francesco. Nel 1496 prende il via una trattativa epistolare con il pittore Giovanni Bellini, che sfortunatamente non approda ad alcun esito. L’anno dopo Isabella si rivolge al Perugino, con il quale saranno necessari cinque lunghi anni prima di convincerlo a firmare il contratto. Intanto la stella dei Gonzaga è ormai Andrea Mantegna, divenuto ufficialmente pittore di corte, che non può dunque sottrarsi alle commissioni della marchesa. Ed è infatti Mantegna ad eseguire i primi due quadri per lo studiolo nel castello San Giorgio, nel 1497. Il risultato sono le due allegorie Marte e Venere, conosciuto anche come Il Parnaso e la famosa Minerva mentre scaccia i Vizi dal giardino della Virtù. Il Perugino, due anni dopo porterà a termine quello che sarà il terzo quadro dei sette La battaglia della Castità con la Lascivia. Dal 1501 Isabella richiede anche un contributo a Leonardo da Vinci, ma senza esito. Nel 1505, con soli tre quadri alle pareti dello studiolo, a quasi otto anni di distanza da quando il Mantegna aveva cominciato a dipingerne il primo, Isabella ,scoraggiata, rinuncia all’idea di avere i pittori più rinomati e decide di ingaggiarne di meno noti. Cosi nel 1504 contatta Lorenzo Costa, che completerà finalmente il ciclo con Isabella d’Este nel regno di armonia, e nel 1509 con l’ultima allegoria il Regno di Como.


Nel 1519 muore il marito Francesco ed il potere passa al figlio Federico Gonzaga. È questa l’occasione in cui Isabella decide di spostare i suoi appartamenti da San Giorgio all’ala della reggia mantovana di Palazzo Ducale chiamata corte vecchia. Decide di trasferire lì anche lo studiolo, ma i cinque quadri fino ad ora dipinti non sono sufficienti per ricoprirne le pareti. Isabella decide quindi di chiamare il Correggio che dipingerà per lei Allegoria della Virtù e Allegoria del Vizio.


Di tutto il ciclo, concentriamoci però sui due quadri del Mantegna. Questi in particolare sono estremamente ricchi di suggestioni, dovute alla profonda conoscenza e al gusto antiquario che nutre la produzione del pittore. Nel corso degli anni le analisi sullo studiolo hanno ripetutamente ragionato sull’intricato sistema di iconografie mantegnesche, arrivando a leggere in profondità una miscela di testi medievali, come la Mitologiae di Fulgenzio, la Psychomachia di Prudenzio, o la Genealogia deorum di Boccaccio e di testi classici, dai Fasti di Ovidio alle Immagini di Filostrato Lemnio. È da tutto questo ricco patrimonio culturale che Marte, Venere, le muse, le ninfe, Mercurio, Apollo e le divinità minori care ai mitografi, si aggirano fra le corti italiane e danno vita a quell immaginario che è il risultato della riscoperta e dell’interesse dell’epoca verso le antichità classiche. E se grazie all’analisi di Ernst Gombrich Mitologie Botticelliane. Uno studio sul simbolismo neoplatonico della cerchia del Botticelli oggi possiamo comprendere e leggere le mitologie botticelliane, è sulla scia dello stesso saggio che possiamo interpretare anche le mitologie rappresentate nello studiolo di Isabella, che si ramifica in un sistema di simboli e di significati, che vanno individuati uno per uno ricontestualizzandoli nell’ambiente culturale dell’epoca. Così, nel Parnaso, l’unione di Venere e Marte, sotto il segno dell’Amore Celeste o Anteros, sta a significare l’armonia del mondo e la fioritura delle arti, al cui ritmo danzano le muse accompagnate dalla cetra di Apollo. Secondo la mitologia, il canto delle nove muse genera terremoti ed altre calamità naturali, già annunciate dalle montagne crollanti sulla sinistra. Ma ecco Pegaso, l’unico in grado di fermare queste catastrofi con un tocco del suo zoccolo, accompagnato da Mercurio. Cercando di semplificare la lettura si può pensare che Venere e Amore, ovviamente la Venere Celeste e Amore Anteros, premino la vittoria sui vizi di una giovane che altri non può essere se non Isabella stessa, per le sue doti di perfetta donna di palazzo. Nella racconto del Trionfo della Virtù invece, Minerva irrompe sulla scena dalla sinistra, cacciando dal regno delle Virtù il corteo di vizi della Venere terrena. Questa è rappresentata al centro della scena, semplicemente vestita da un leggero velo verde e da due bracciali in oro sul braccio sinistro. Intanto, il gruppo di cupidi è già in fuga, alcuni di questi in secondo piano, assumono le sembianze di gufi e barbagianni, simbolo dell’inganno. Ai piedi di Minerva si legge la citazione otia si tollas periere cupidinis arcus (se togli gli ozi perirà l'arco di Cupido), tratta dai Remedia Amoris di Ovidio. Alla sinistra, la madre delle Virtù, Dafne, che in una smorfia di dolore ha ormai quasi completato il processo di metamorfosi in pianta di alloro. Più in là, al centro della composizione, due figure femminili, armate di arco e frecce, che potrebbero essere Diana e la Castità, mentre nel cielo appaiono Giustizia, Forza e Temperanza.


Andrea Mantegna, Il Parnaso, 1497

Ma la storia dello studiolo di Isabella è anche una triste storia di dispersione di un patrimonio artistico incredibile. Cent’anni dopo la morte di Isabella la collezione della mecenate viene dispersa. Le cinque allegorie di Mantegna, Perugino e Costa sono date in dono al Cardinale Richelieu, e approdano al Louvre. Le due allegorie del Correggio sono invece vendute, insieme alla parte più pregiata della collezione dei Gonzaga, al Re Carlo I d’Inghilterra, per sanare la disastrosa situazione economica che aveva colpito la corte mantovana. Da lì passando per la Germania, attraverso alterazioni ed aggiunte, arrivano nelle mani di Luigi XIV che li consegna al Louvre, aperto da pochissimo, dove si trovano tuttora nella Grande Galerie di pittura italiana. E stata così smembrata forse una delle collezioni più preziose di tutto quel patrimonio diffuso e quasi dimenticato della provincia italiana, creata dalla lungimiranza di Isabella, donna di palazzo o forse più semplicemente, abilissima figura politica.


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