Ritratto di Luigi XIV di Hyacinthe Rigaud, 1701
Luigi XIII, re di Francia dal 1610 al 1643, ebbe la sfortuna di perdere presto i capelli e, soprattutto, di dispiacersene terribilmente. In effetti, per il monarca, non deve essere stato semplice: lui sovrano eccellente (detto Il Giusto) si trovava a dover fare a meno di quello che da tempi immemori, già dalla vicenda biblica di Sansone, era stato un simbolo di coraggio e forza sovrumana, quindi degna di un re. Alla progressiva calvizie di Luigi XIII andava necessariamente trovato rimedio e quale migliore soluzione di una lunga parrucca, composta da arricciate volute di capelli posticci? Il suo successore, il ben più celebre Luigi XIV, ossessionato esteta e folleggiante spendaccione, colpito anch’egli dalla medesima calvizie, percorse la stessa strada del monarca precedente: fece sua quella corona immensa di capelli, perfezionandola. Sul capo del re Sole, la chioma fasulla diveniva alta, torreggiante e incredibilmente lunga. Il sovrano (gli uomini di un tempo erano bassi) si aggirava per i suoi corridoi intarsiati d’oro, sfoggiando con orgoglio leonino il manto che, dalla testa, arrivava a coprirgli la schiena per intero: mancanza sublimata con l’eccesso, questo è evidente, ma con quale classe. Luigi XIV propagò definitivamente tra i cortigiani la moda del toupet che divenne incontrovertibile testimonianza di status; per questo si apprestarono ad indossarne di simili loro volta. Cresceva dunque l’interesse per i capelli posticci che si allargava dalla corte francese a tutti gli altri contesti europei. Tornava così in auge la fascinazione verso un oggetto antico e misterioso: la parrucca.
L’avevano indossata gli antichi egizi, in quel complicato processo di creazione e manipolazione del sé che prevedeva anche le pesanti linee di kohl a marcare lo sguardo; ne avevano fatto uso i greci; e già erano alte quelle che decoravano il capo delle nobili signore romane. Dimenticate poi nel periodo medievale, le parrucche furono odiate dal Savonarola. È però solo a partire del Settecento che divennero quell’ingombrante, costosissimo, antigenico stemma di regalità di cui si vollero fregiare i nobili d’Europa. La moda dei capelli posticci, nonostante il costo eccessivo, cominciò lentamente a “sgocciolare” inumidendo anche il gusto delle classi sociali meno abbienti. Il desiderio di possedere un simbolo di tale prestigio divenne, in Francia, insopprimibile. Durante la seconda metà del Settecento, il paese è un fiorire di piccole attività che si occupano di vendere parrucche, ridotte nelle dimensioni, modificate nel colore (non solo brune come quelle del sovrano, ma anche bianche) e nei materiali. Vanno bene i capelli veri, costosissimi, ma ci si accontenta anche di fibre di tessuto e, per i più poveri, di quelle in filo di ferro. I prezzi calano, la moda cresce e, dalle grandi città, le botteghe di parrucche raggiungono anche i piccoli paesi. Il marchese Victor Riqueti de Mirabeau, nella sua opera del 1757 L'Ami des hommes, lo afferma con chiarezza: “Chiunque a Parigi è diventato un Monsieur”, sottintendendo come lo status fosse divenuto un bene comunissimo nella Francia del tempo. La contraddizione però è evidente: se la nobiltà è di tutti allora non appartiene veramente a nessuno, e le parrucche dimostrano rapidamente di essere delle inaffidabili testimonianze del potere.
Ritratto di Jean-Jacques Rousseau, di Maurice Quentin de La Tour, 1750 c.ca
Tuttavia, ciò non rappresenta davvero un ostacolo all’espandersi di questa moda, che, a ben vedere, sopravvive mutando di significato: i capelli finti hanno progressivamente meno a che vedere con l’espressione dello status, ma riguardano un nuovo assetto di valori d’importanza crescente. Il filosofo Jean-Jacques Rousseau, sul letto di morte, decide di perseguire la via della semplicità naturale di cui aveva tanto discusso nei suoi celebri testi: rinuncia ai beni sontuosi e tiene per sé quei, pochi, oggetti irrinunciabili. Tra le cose salvate, c’è anche una parrucca: semplice, niente di vistoso, in linea con il nuovo gusto del tempo; eppure, fondamentale per l’ammalorato filosofo. Se questa fosse stata sinonimo di ricchezza allora egli ne sarebbe riuscito a fare a meno, tuttavia, incarnando i valori di semplicità e naturalezza a cui Rousseau era intellettualmente legato, proprio non gli riuscì di separarsene. Paradossalmente, le nuove parrucche esprimevano perfettamente simili virtù: innanzitutto perché, nell’allargarsi del mercato, i capelli posticci erano stati raccontati non più come prodigiosi escamotage per guadagnare prestigio, ma al pari di manifestazioni dell’assennato senso pratico borghese -meglio avere una chioma fasulla che dover occuparsi dei propri capelli. Inoltre, anche i morigerati e innovativi toupet, con attaccature sempre più verosimili e meno fantasiose, andavano dimostrando quella vicinanza allo stato di natura di cui parlava Rousseau. Può sembrare irragionevole, ma non è di certo insolito che, per essere considerati naturali (acqua e sapone, volendo svilire la filosofia) sia necessario uno sforzo non indifferente, anche se rigorosamente dissimulato.
Se queste sono le ragioni che persuadono il filosofo a tenersi ben stretta la sua parrucca, altre ancora sono quelle che determinano una così radicale passaggio dal modello reale a quello popolare. Complice di tale cambiamento è la sempre più prossima rivoluzione ottocentesca dell’abbigliamento, che opererà una nettissima distinzione tra ciò che può essere considerato femminile e ciò che invece pertiene all’ambito maschile. Gli uomini diranno addio ai tacchi, ai colori, ai tessuti pregiati e, naturalmente, alle parrucche. I capelli posticci, fino alla seconda metà dell’Ottocento erano riusciti a sopravvivere sia all’interno dei guardaroba maschili, sia in quelli femminili: considerati accessori a metà strada tra gli orologi da polso e medicamenti personali, erano stati ritenuti adatti ad entrambi i generi; poi, le chiome fasulle si ridussero sulla testa degli uomini fino a scomparire.
Anonimo, What is this my Son Tom, stampata da Sayer & Bennett, 1774
In Inghilterra questo processo è forse ancora più evidente. Qui, una nuova popolazione di giovani uomini, a partire dagli anni Settanta del Settecento, veste abiti coloratissimi ed attillati, grossi spadoni legati alla cintura e, soprattutto, enormi, colossali, ridicole parrucche. Dapprima è uno stile che riguarda solo i rampolli di una nobiltà che può permettersi il celebre grand tour, il giro dell’Europa: vengono chiamati Macaroni, come la pasta italiana, proprio per sottolineare la prestigiosa internazionalità di chi adottava simili indumenti. Poi, anche perché presi di mira dai giornali satirici dell’epoca che criticandoli li pubblicizzavano, i Macaroni cominciarono ad affascinare anche la borghesia. La società è in fermento poiché questi modaioli sono di difficile collocazione: da una parte paiono baldanzosi ricchi che sono felici di spendere e determinati a mettere in mostra la loro potenza economica; dall’altra omosessuali, invertiti, un terzo, misterioso, sesso da condannare; o ancora golosi e goderecci fortunati, che anzi predano giovani fanciulle senza ritegno. È un mondo a parte, che si consuma nei balli in maschera da loro organizzati e in cui tutto può accadere: non esistono distinzioni di genere o classe sociale, ma regna il culto dell’apparenza, che sovverte i ruoli sociali prestabiliti. Gli inglesi non capiscono; i padri, che si trovano davanti il figliolo con in testa una piramide di capelli profumati, non capiscono: “Questo cos’è, Tom, figlio mio?”, è il commento che accompagna una vignetta satirica raffigurante un genitore rassegnato il quale indica con sdegno la scultura che l’erede tiene in bilico sul capo. Eppure, sono alieni che incuriosiscono, forse anche perché apertamente effimeri: anche su di loro calerà l’ombra lunga e seriosa dell’Ottocento, che prenderà per le orecchie gli allegri dissidenti delle regole, incastrandoli in più convenzionali codici di abbigliamento.
Le vicende che accompagnano i capelli posticci, pertanto, cominciano un lento declino, ma sarebbe meglio dire un lento oblio. Tant’è che, quando le parrucche torneranno ad essere indossate, non mancheranno di generare sorpresa, rabbia e incomprensione. In realtà, sia che si tratti di eleganti ed ingombranti torri di capelli, sia che si faccia riferimento a più meste e morigerate acconciature moderne, la storia delle parrucche mostra come questi oggetti siano stati veri e propri sogni ad occhi aperti di un’umanità antica; posizionati ben sopra la testa nella speranza di vederli realizzati.
Bibliografia
Aruch Scaravaglio, Gabriella, e George Montandon. «Parrucca». In Enciclopedia Italiana Treccani, 1935.
Kwass, Michael. «Big Hair: A Wig History of Consumption in Eighteenth-Century France». The American Historical Review 111, n. 3 (1 giugno 2006): 631–59.
Rauser, Amelia F. (Amelia Faye). «Hair, Authenticity, and the Self-Made Macaroni». Eighteenth-Century Studies 38, n. 1 (2004): 101–17.
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